

METODOLOGIA BIBLICA
Per un corretto modo di approccio al discernimento critico, qui di seguito,
riportiamo una sintesi dei criteri metodologici seguiti nei lavori del Diacono
Lorenzo Ventrudo
PROGRAMMA MENSILE A.M.E
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DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE
DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI
Giovedì, 22 dicembre 2005
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!
“Expergiscere, homo: quia pro te Deus factus est homo - Svegliati, uomo, poiché
per te Dio si è fatto uomo” (S. Agostino, Discorsi, 185). Con quest’invito di
Sant’Agostino a cogliere il senso autentico del Natale di Cristo, apro il mio
incontro con voi, cari collaboratori della Curia Romana, in prossimità ormai
delle festività natalizie. A ciascuno rivolgo il mio saluto più cordiale,
ringraziandovi per i sentimenti di devozione e di affetto, di cui si è fatto
efficace interprete il Cardinale Decano, al quale va il mio pensiero
riconoscente. Iddio si è fatto uomo per noi: è questo il messaggio che ogni anno
dalla silenziosa grotta di Betlemme si diffonde sin nei più sperduti angoli
della terra. Il Natale è festa di luce e di pace, è giorno di interiore stupore
e di gioia che si espande nell’universo, perché “Dio si è fatto uomo”.
Dall’umile grotta di Betlemme l’eterno Figlio di Dio, divenuto piccolo Bambino,
si rivolge a ciascuno di noi: ci interpella, ci invita a rinascere in lui
perché, insieme a lui, possiamo vivere eternamente nella comunione della
Santissima Trinità.
Con il cuore colmo della gioia che deriva da questa consapevolezza, riandiamo
col pensiero alle vicende dell’anno che volge al suo tramonto. Stanno alle
nostre spalle grandi avvenimenti, che hanno segnato profondamente la vita della
Chiesa. Penso innanzitutto alla dipartita del nostro amato Santo Padre Giovanni
Paolo II, preceduta da un lungo cammino di sofferenza e di graduale perdita
della parola. Nessun Papa ci ha lasciato una quantità di testi pari a quella che
ci ha lasciato lui; nessun Papa in precedenza ha potuto visitare, come lui,
tutto il mondo e parlare in modo diretto agli uomini di tutti i continenti. Ma,
alla fine, gli è toccato un cammino di sofferenza e di silenzio. Restano
indimenticabili per noi le immagini della Domenica delle Palme quando, col ramo
di olivo nella mano e segnato dal dolore, egli stava alla finestra e ci dava la
benedizione del Signore in procinto di incamminarsi verso la Croce. Poi
l'immagine di quando nella sua cappella privata, tenendo in mano il Crocifisso,
partecipava alla Via Crucis nel Colosseo, dove tante volte aveva guidato la
processione portando egli stesso la Croce. Infine la muta benedizione della
Domenica di Pasqua, nella quale, attraverso tutto il dolore, vedevamo rifulgere
la promessa della risurrezione, della vita eterna. Il Santo Padre, con le sue
parole e le sue opere, ci ha donato cose grandi; ma non meno importante è la
lezione che ci ha dato dalla cattedra della sofferenza e del silenzio. Nel suo
ultimo libro “Memoria e Identità” (Rizzoli 2005) ci ha lasciato
un’interpretazione della sofferenza che non è una teoria teologica o filosofica,
ma un frutto maturato lungo il suo personale cammino di sofferenza, da lui
percorso col sostegno della fede nel Signore crocifisso. Questa interpretazione,
che egli aveva elaborato nella fede e che dava senso alla sua sofferenza vissuta
in comunione con quella del Signore, parlava attraverso il suo muto dolore
trasformandolo in un grande messaggio. Sia all'inizio come ancora una volta alla
fine del menzionato libro, il Papa si mostra profondamente toccato dallo
spettacolo del potere del male che, nel secolo appena terminato, ci è stato dato
di sperimentare in modo drammatico. Dice testualmente: “Non è stato un male in
edizione piccola… È stato un male di proporzioni gigantesche, un male che si è
avvalso delle strutture statali per compiere la sua opera nefasta, un male
eretto a sistema" (pag. 198). Il male è forse invincibile? È la vera ultima
potenza della storia? A causa dell'esperienza del male, la questione della
redenzione, per Papa Woytiła, era diventata l'essenziale e centrale domanda
della sua vita e del suo pensare come cristiano. Esiste un limite contro il
quale la potenza del male s'infrange? Sì, esso esiste, risponde il Papa in
questo suo libro, come anche nella sua Enciclica sulla redenzione. Il potere che
al male mette un limite è la misericordia divina. Alla violenza,
all'ostentazione del male si oppone nella storia – come “il totalmente altro” di
Dio, come la potenza propria di Dio – la divina misericordia. L'agnello è più
forte del drago, potremmo dire con l'Apocalisse.
Alla fine del libro, nello sguardo retrospettivo sull'attentato del 13 maggio
1981 ed anche sulla base dell'esperienza del suo cammino con Dio e con il mondo,
Giovanni Paolo II ha approfondito ulteriormente questa risposta. Il limite del
potere del male, la potenza che, in definitiva, lo vince è – così egli ci dice –
la sofferenza di Dio, la sofferenza del Figlio di Dio sulla Croce: “La
sofferenza di Dio crocifisso non è soltanto una forma di sofferenza accanto alle
altre… Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla
sofferenza, l'ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello
dell'amore… La passione di Cristo sulla Croce ha dato un senso radicalmente
nuovo alla sofferenza, l'ha trasformata dal di dentro… È la sofferenza che
brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore… Ogni sofferenza umana, ogni
dolore, ogni infermità racchiude una promessa di salvezza… Il male… esiste nel
mondo anche per risvegliare in noi l'amore, che è dono di sé… a chi è visitato
dalla sofferenza… Cristo è il Redentore del mondo: ‘Per le sue piaghe noi siamo
stati guariti’ (Is 53, 5)” (pag. 198 ss.). Tutto questo non è semplicemente
teologia dotta, ma espressione di una fede vissuta e maturata nella sofferenza.
Certo, noi dobbiamo fare del tutto per attenuare la sofferenza ed impedire
l'ingiustizia che provoca la sofferenza degli innocenti. Tuttavia dobbiamo anche
fare del tutto perché gli uomini possano scoprire il senso della sofferenza, per
essere così in grado di accettare la propria sofferenza e unirla alla sofferenza
di Cristo. In questo modo essa si fonde insieme con l'amore redentore e diventa,
di conseguenza, una forza contro il male nel mondo. La risposta che si è avuta
in tutto il mondo alla morte del Papa è stata una manifestazione sconvolgente di
riconoscenza per il fatto che egli, nel suo ministero, si è offerto totalmente a
Dio per il mondo; un ringraziamento per il fatto che egli, in un mondo pieno di
odio e di violenza, ci ha insegnato nuovamente l'amare e il soffrire a servizio
degli altri; ci ha mostrato, per così dire, dal vivo il Redentore, la
redenzione, e ci ha dato la certezza che, di fatto, il male non ha l'ultima
parola nel mondo.
Due altri avvenimenti, avviati ancora da Papa Giovanni Paolo II, vorrei ora
menzionare, se pur brevemente: si tratta della Giornata Mondiale della Gioventù
celebrata a Colonia e del Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia che ha concluso
anche l'Anno dell’Eucaristia, inaugurato da Papa Giovanni Paolo II.
La Giornata Mondiale della Gioventù è rimasta nella memoria di tutti coloro che
erano presenti come un grande dono. Oltre un milione di giovani si radunarono
nella Città di Colonia, situata sul fiume Reno, e nelle città vicine per
ascoltare insieme la Parola di Dio, per pregare insieme, per ricevere i
sacramenti della Riconciliazione e dell'Eucaristia, per cantare e festeggiare
insieme, per gioire dell’esistenza e per adorare e ricevere il Signore
eucaristico durante i grandi incontri del sabato sera e della domenica. Durante
tutti quei giorni regnava semplicemente la gioia. A prescindere dai servizi
d'ordine, la polizia non ebbe niente da fare – il Signore aveva radunato la sua
famiglia, superando sensibilmente ogni frontiera e barriera e, nella grande
comunione tra di noi, ci aveva fatto sperimentare la sua presenza. Il motto
scelto per quelle giornate – “Andiamo ad adorarlo” – conteneva due grandi
immagini che, fin dall'inizio, favorirono l'approccio giusto. Vi era
innanzitutto l'immagine del pellegrinaggio, l'immagine dell'uomo che, guardando
al di là dei suoi affari e del suo quotidiano, si mette alla ricerca della sua
destinazione essenziale, della verità, della vita giusta, di Dio. Questa
immagine dell'uomo in cammino verso la meta della vita racchiudeva in se ancora
due indicazioni chiare. C'era innanzitutto l’invito a non vedere il mondo che ci
circonda soltanto come la materia grezza con cui noi possiamo fare qualcosa, ma
a cercare di scoprire in esso la “calligrafia del Creatore”, la ragione
creatrice e l'amore da cui è nato il mondo e di cui ci parla l'universo, se noi
ci rendiamo attenti, se i nostri sensi interiori si svegliano e acquistano
percettività per le dimensioni più profonde della realtà. Come secondo elemento
si aggiungeva poi l'invito a mettersi in ascolto della rivelazione storica che,
sola, può offrirci la chiave di lettura per il silenzioso mistero della
creazione, indicandoci concretamente la via verso il vero Padrone del mondo e
della storia che si nasconde nella povertà della stalla di Betlemme. L'altra
immagine contenuta nel motto della Giornata Mondiale della Gioventù era l'uomo
in adorazione: “Siamo venuti per adorarlo”. Prima di ogni attività e di ogni
mutamento del mondo deve esserci l'adorazione. Solo essa ci rende veramente
liberi; essa soltanto ci dà i criteri per il nostro agire. Proprio in un mondo
in cui progressivamente vengono meno i criteri di orientamento ed esiste la
minaccia che ognuno faccia di se stesso il proprio criterio, è fondamentale
sottolineare l'adorazione. Per tutti coloro che erano presenti rimane
indimenticabile l’intenso silenzio di quel milione di giovani, un silenzio che
ci univa e sollevava tutti quando il Signore nel Sacramento era posto
sull'altare. Serbiamo nel cuore le immagini di Colonia: sono una indicazione che
continua ad operare. Senza menzionare singoli nomi, vorrei in questa occasione
ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la Giornata Mondiale della
Gioventù; soprattutto, però, ringraziamo insieme il Signore, perché in
definitiva solo Lui poteva donarci quelle giornate nel modo in cui le abbiamo
vissute.
La parola "adorazione" ci porta al secondo grande avvenimento di cui vorrei
parlare: il Sinodo dei Vescovi e l'Anno dell’Eucaristia. Papa Giovanni Paolo II,
con l'Enciclica Ecclesia de Eucharistia e con la Lettera apostolica Mane
nobiscum Domine ci aveva già donato le indicazioni essenziali e al contempo, con
la sua esperienza personale della fede eucaristica, aveva concretizzato
l'insegnamento della Chiesa. Inoltre, la Congregazione per il Culto Divino, in
stretto collegamento con l'Enciclica, aveva pubblicato l'istruzione Redemptionis
Sacramentum come aiuto pratico per la giusta realizzazione della Costituzione
conciliare sulla liturgia e della riforma liturgica. Oltre tutto ciò, era
veramente possibile dire ancora qualcosa di nuovo, sviluppare ulteriormente
l’insieme della dottrina? Proprio questa fu la grande esperienza del Sinodo
quando, nei contributi dei Padri, si è vista rispecchiarsi la ricchezza della
vita eucaristica della Chiesa di oggi e si è manifestata l'inesauribilità della
sua fede eucaristica. Quello che i Padri hanno pensato ed espresso dovrà essere
presentato, in stretto collegamento con le Propositiones del Sinodo, in un
documento post-sinodale. Vorrei qui solo sottolineare ancora una volta quel
punto che, poco fa, abbiamo già registrato nel contesto della Giornata Mondiale
della Gioventù: l'adorazione del Signore risorto, presente nell'Eucaristia con
carne e sangue, con corpo e anima, con divinità e umanità. È commovente per me
vedere come dappertutto nella Chiesa si stia risvegliando la gioia
dell'adorazione eucaristica e si manifestino i suoi frutti. Nel periodo della
riforma liturgica spesso la Messa considerata come Cena eucaristica e
l'adorazione del Ss.mo Sacramento erano viste come in contrasto tra loro: il
Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere
mangiato, secondo un’obiezione allora diffusa. Nell'esperienza di preghiera
della Chiesa si è ormai manifestata la mancanza di senso di una tale
contrapposizione. Già Agostino aveva detto: “… nemo autem illam carnem manducat,
nisi prius adoraverit;… peccemus non adorando - Nessuno mangia questa carne
senza prima adorarla; … peccheremmo se non la adorassimo” (cfr Enarr. in Ps 98,9
CCL XXXIX 1385). Di fatto, non è che nell'Eucaristia riceviamo semplicemente una
qualche cosa. Essa è l'incontro e l'unificazione di persone; la persona, però,
che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale
unificazione può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell'adorazione.
Ricevere l'Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e
soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui. Perciò, lo sviluppo
dell'adorazione eucaristica, come ha preso forma nel corso del Medioevo, era la
più coerente conseguenza dello stesso mistero eucaristico: soltanto
nell'adorazione può maturare un'accoglienza profonda e vera. E proprio in questo
atto personale di incontro col Signore matura poi anche la missione sociale che
nell'Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il
Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli
altri.
L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la
celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa. Tale
memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato
recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono,
che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può
negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta
in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in
questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa
della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una
battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco
di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere
incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai
quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina
della fede …” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524).
Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della
Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla
giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta
ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della
recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a
confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra,
silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte
esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e
della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei
mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è
l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico
soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo
e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio
in cammino. L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura
tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del
Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del
Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere
l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose
vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero
spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai
testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da
essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi
rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua
novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo
spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda,
sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non
i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un
vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di
conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende
in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene
considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia
e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una
conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve
servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro;
nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa
viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita
eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la
vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno
ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri
di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cfr Lc
12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo
giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e
il Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: “Poiché sei stato fedele
nel poco, ti darò autorità su molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste
parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel
servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio
dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.
All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come
l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del
Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7
dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII,
in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il
Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o
travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo
tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di
dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età
esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere
fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda
alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè
le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col
quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la
stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes,
1974, pp. 863-865). È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una
determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto
vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se
nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra
parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo
senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente,
come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa
interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio,
è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il
Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non
potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il
seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche
la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.
Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato
ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità
potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che
contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo
particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la
Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra
(ibid., pp. 1066 s.). La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del
termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il
Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna.
Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a
Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro
la sola ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne
diffusa un'immagine dello Stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede
praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della
Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che
pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi
confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’“ipotesi Dio”, aveva
provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali
condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più
nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i
rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna.
Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci
si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato
moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella
seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in
modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso
loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di
comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano
progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre
mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato
cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che
tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti
etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via
sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e
la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che come tali lavorano con
un metodo limitato all'aspetto fenomenico della realtà, si rendevano conto
sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della
realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più
grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare. Si potrebbe
dire che si erano formati tre cerchi di domande che ora, durante il Vaticano II,
attendevano una risposta. Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la
relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le
scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il
metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione
della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle
Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede
della Chiesa aveva elaborato. In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il
rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie
religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale
e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e
tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria
religione. Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il
problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova
definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In
particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in
genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava
valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di
Israele.
Sono tutti temi di grande portata su cui non è possibile soffermarsi più
ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel
loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di
discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una
discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le
concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la
continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima
percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli
diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità
nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le
decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme
concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano
necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una
determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che,
in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel
sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente
permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono
quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare
valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono
cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come
espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza
diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e
storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del
suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che
crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità
interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente
diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità
derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della
verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria
dall’uomo solo mediante il processo del convincimento. Il Concilio Vaticano II,
riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio
essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo
della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia
con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei
martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha
pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un
suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece
rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato.
I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si
era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di
coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione
che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo
con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza. Una Chiesa missionaria, che
si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi
per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che
esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler
distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una
risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità
delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche
la pace tra i popoli.
Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della
Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche
corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha
invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La
Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa,
cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo
pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”,
annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8).
Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le
tensioni si dileguassero e l’“apertura verso il mondo” così realizzata
trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e
anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la
pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in
ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi
pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia
e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno
sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la
Chiesa resta un "segno di contraddizione" (Lc 2,34) – non senza motivo Papa
Giovanni Paolo II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli Esercizi
Spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana. Non poteva
essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei
confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo
intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a
questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza.
Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è
stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al
perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre
nuove forme. La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro
paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima
lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta
(apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede
(cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione
e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante
l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra
loro nell'unica ragione donata da Dio. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi
ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità
medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di
entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso
d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo
così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo
tempo. La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un
primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente
conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si
richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è
tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione
essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente
importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento. Adesso questo
dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella
chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta
da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il
nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da
una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande
forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.
Infine, devo forse ancora far memoria di quel 19 aprile di quest'anno, in cui il
Collegio Cardinalizio, con mio non piccolo spavento, mi ha eletto a successore
di Papa Giovanni Paolo II, a successore di san Pietro sulla cattedra del Vescovo
di Roma? Un tale compito stava del tutto fuori di ciò che avrei mai potuto
immaginare come mia vocazione. Così, fu soltanto con un grande atto di fiducia
in Dio che potei dire nell'obbedienza il mio “sì” a questa scelta. Come allora,
così chiedo anche oggi a tutti Voi la preghiera, sulla cui forza e sostegno io
conto. Al contempo desidero ringraziare di cuore in quest'ora tutti coloro che
mi hanno accolto e mi accolgono tuttora con tanta fiducia, bontà e comprensione,
accompagnandomi giorno per giorno con la loro preghiera.
Il Natale è ormai vicino. Il Signore Dio alle minacce della storia non si è
opposto con il potere esteriore, come noi uomini, secondo le prospettive di
questo nostro mondo, ci saremmo aspettati. L'arma sua è la bontà. Si è rivelato
come bimbo, nato in una stalla. È proprio così che contrappone il suo potere
completamente diverso alle potenze distruttive della violenza. Proprio così Egli
ci salva. Proprio così ci mostra ciò che salva. Vogliamo, in questi giorni
natalizi, andargli incontro pieni di fiducia, come i pastori, come i sapienti
dell'Oriente. Chiediamo a Maria di condurci al Signore. Chiediamo a Lui stesso
di far brillare il suo volto su di noi. Chiediamogli di vincere Egli stesso la
violenza nel mondo e di farci sperimentare il potere della sua bontà. Con questi
sentimenti imparto di cuore a tutti Voi la Benedizione Apostolica.
© Copyright 2005 - Libreria Editrice Vaticana
Benedetto XVI, lezione sul Vaticano II
15-02-2013
Presentata come una «piccola chiacchierata» con i parroci di Roma, la lezione
sul Vaticano II che Benedetto XVI ha proposto il 14 febbraio rimarrà invece tra
i testi fondamentali della sua eredità teologica e pastorale.
Presentata come una «piccola chiacchierata» con i parroci di Roma, la lezione
sul Vaticano II che Benedetto XVI ha proposto il 14 febbraio - parlando a
braccio (e qui abbiamo voluto conservare il sapore della trascrizione dal
parlato), con visibile fatica fisica ma con straordinaria lucidità mentale -
rimarrà invece tra i testi fondamentali della sua eredità teologica e pastorale.
Riprende, oltre sette anni dopo, il primo grande discorso, quello del 22
dicembre 2005 alla Curia Romana dove condannava quell'«ermeneutica della
discontinuità e della rottura» che, per esaltarlo o per criticarlo, legge il
Concilio come frattura radicale con il Magistero precedente, e proponeva invece
una «ermeneutica della riforma nella continuità». Si tratta di una cifra
fondamentale del pontificato di Benedetto XVI e di un'eredità che, congedandosi
dal clero di Roma, ha voluto consegnare con forza al suo successore.
Tutti gli altri grandi temi di Papa Ratzinger - la rivendicazione della verità
naturale e la denuncia della dittatura del relativismo, la fondazione filosofica
e teologica della libertà religiosa come premessa alla sua strenua difesa
ovunque, il rilancio della dottrina sociale intorno ai principi non negoziabili
- stanno o cadono con la sua interpretazione del Concilio.
Certo, molta acqua è passata sotto i ponti di Roma dal 2005, e molti non hanno
accolto l'indicazione ermeneutica del Papa, ritenendo che sia impossibile
interpretare il Vaticano II in continuità con il Magistero precedente, perché -
sostengono - la corrente teologica che vi si manifestò come dominante aveva in
effetti propositi di rottura.
In uno dei suoi ultimi discorsi Benedetto XVI ieri ha battuto in breccia questa
storiografia - progressista o ultra-conservatrice -, prendendola per così dire
di petto e affermando, con la sua autorità sia di padre conciliare sia di
Pontefice, che sì, una volontà d'innovazione anche radicale vi fu, ma furono
soltanto i media a interpretare questo desiderio di riforma come ostile alla
continuità, creando un nefasto «Concilio virtuale». È stato questo Concilio come
evento mediatico, non il Concilio come insieme di documenti e neppure come
evento storico reale, a determinare la gravissima crisi post-conciliare.
Al Vaticano II, ha esordito il Papa, io c'ero. Ne parlo, sembra dire, con
cognizione di causa. E c'ero anche negli anni, spesso capiti male, che
prepararono il Concilio. «Io - ha raccontato Benedetto XVI - ero stato nominato
nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i
seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono
venuto in contatto con il cardinale di Colonia, il cardinale [Josef] Frings
[1887-1978]. Il cardinale [Giuseppe] Siri [1906-1989] di Genova, – mi sembra nel
’61 - aveva organizzato una serie di conferenze, con diversi cardinali europei,
sul Concilio e aveva invitato anche l’arcivescovo di Colonia a tenere una delle
conferenze, dal titolo: “Il Concilio e il mondo del pensiero moderno”.
Il cardinale mi ha invitato - il più giovane dei professori - a scrivergli un
progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, questo
testo, come io l’avevo scritto». La conferenza scritta dal giovane professor
Ratzinger per il cardinale Frings accennava a una serie di riforme necessarie e
a un cambiamento di mentalità nei rapporti con il mondo contemporaneo. Il
cardinale tedesco la lesse, ma subito cominciò a preoccuparsi che avesse causato
dispiacere in Vaticano.
«Poco dopo - ha proseguito Benedetto XVI - Papa Giovanni [XXIII, 1881-1963] lo
invita a venire e lui era pieno di timore di avere detto forse qualcosa di non
corretto, di falso e sarebbe stato interpellato per un rimprovero, forse anche
per togliergli la porpora... Sì … quando il suo segretario lo ha vestito per l’
udienza, ha detto: "Forse adesso porto per l’ultima volta questa roba"....Poi, è
entrato. Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia e dice: "Grazie, eminenza,
lei ha detto che cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole"'».
L'aneddoto ha fatto sorridere i parroci romani, ma per il Pontefice è
importante. Serve a spiegare dove si collocava lui in relazione al Concilio.
«Così, il cardinale sapeva di essere sulla strada giusta, e mi ha invitato ad
andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale, poi – nel corso
del primo periodo, forse nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito
ufficiale del Concilio». E i periti del Nord Europa, tra cui il giovane
Ratzinger, volevano davvero una svolta decisiva: «Allora, noi siamo andati al
Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. Era un’aspettativa incredibile.
Speravamo che tutto si rinnovasse, veramente che venisse una nuova Pentecoste,
una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta, in
quel tempo: la prassi domenicale ancora buona, anche le vocazioni al sacerdozio
e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti».
Eppure il Papa nega con forza la tesi secondo cui prima del Vaticano II tutto
andava bene: «tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, ma si
riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del
futuro. E adesso, speravamo che questo rapporto si rinnovasse, si cambiasse».
Quello che questi teologi, tra cui Ratzinger, auspicavano era in effetti un
nuovo rapporto con la modernità, che superasse le controversie emerse fin dal
caso di Galileo Galilei (1564-1642).
E i teologi del Nord Europa avevano un modello da criticare, quello del Sinodo
romano, che avrebbe dovuto essere - ma non fu - la prova generale del Concilio e
«dove si dice che avrebbero letto testi già preparati, e i membri del Sinodo
avrebbero semplicemente approvato e così si sarebbe svolto il Sinodo».
Al Vaticano II, «i vescovi hanno concordato di non fare così in quanto loro
stessi sono i soggetti del Concilio». E cominciarono «subito, il primo giorno» a
rifiutare le liste e i nominativi delle commissioni preparati dalla Curia perché
non volevano «semplicemente votare liste già fatte». «Non era un atto
rivoluzionario ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri
conciliari». È anche vero, ha detto Benedetto XVI, che le sedute del Concilio
furono spesso preparate da «piccoli incontri trasversali» in cui egli stesso
ebbe modo d'interagire con teologi decisivi per la redazione dei documenti, tra
cui i padri e futuri cardinali Henri-Marie de Lubac S.J. (1896-1991), Jean
Daniélou S. J. (1905-1974) e Yves Congar O.P. (1904-1995). E quelli che erano
venuti a Roma con le «intenzioni più definite erano l’episcopato francese,
tedesco, belga, olandese, la così detta “Alleanza renana”. E nella prima parte
del Concilio erano loro che indicavano la strada».
Gli storici che parlano dell'Alleanza renana e degli «incontri trasversali»
hanno dunque ragione sul fatto. Ma, ha aggiunto Benedetto XVI, hanno
completamente torto nell'interpretazione, se pensano - celebrandoli o
deprecandoli - che quegli incontri avessero lo scopo di sovvertire la Chiesa.
No: erano piuttosto «un’ esperienza della universalità della Chiesa e della
realtà concreta della Chiesa, che non semplicemente riceve imperativi dall’alto,
ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del
Successore di Pietro».
Che cosa volevano i padri «renani», che finirono per indirizzare la prima parte
del Concilio? La loro «prima intenzione», testimonia il Pontefice, «era la
riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII [1876-1958]» e con le
sue innovazioni sulla Settimana Santa. La liturgia, dunque, non era affatto un
elemento secondario del programma di rinnovamento conciliare. Dopo la Seconda
guerra mondiale era infatti emerso nella Chiesa il cosiddetto movimento
liturgico, come «riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia». Questa
poteva sembrare «quasi chiusa» nel Messale Romano del sacerdote, e «aperta»
invece nei libri di preghiera dei fedeli, con il rischio di creare «quasi due
liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa
secondo il Messale, e i laici che pregavano nella Messa con i loro libri di
preghiera».
Non che fosse colpa del Messale Romano: il Concilio voleva difendere «proprio la
bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale»,
nello stesso tempo però riformando e instaurando un vero «dialogo tra sacerdote
e popolo» con la sua nozione di «partecipazione attiva». Qualcuno - ha detto il
Papa - «ha criticato il Concilio perché parlava di tante cose, ma non di Dio»:
invece, scegliendo di partire dalla liturgia, «ha parlato di Dio e il suo primo
atto è stato quello di parlare di Dio e di aprire a tutto il popolo santo la
possibilità dell’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del
Corpo e Sangue di Cristo».
Anche il passaggio dal latino al volgare, che avvenne non al Vaticano II ma dopo
il Concilio, voleva promuovere l'intelligibilità della Messa. Ma
«intelligibilità non significa "banalità", perché i grandi testi della liturgia
– anche nelle lingue parlate - non sono facilmente intellegibili», «hanno
bisogno di una formazione permanente del cristiano, perché cresca ed entri
sempre più nella profondità del mistero e così possa comprendere».
Non c'è garanzia che un testo sia capito «solo perché è nella propria lingua».
«Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare
intelligibilità», e la vera partecipazione attiva «è più di una attività
esteriore, è un entrare della persona, del mio essere nella comunione della
Chiesa e così nella comunione con Cristo».
Il Concilio mediatico - da non confondere con il Concilio reale - ha presentato
erroneamente tutto questo come un abbandono della sacralità. «La sacralità,
dicevano, è pagana, Cristo è morto fuori dalle porte del Sacro, va esaltata la
profanità del culto come partecipazione comune. Concetti nati in una visione del
Concilio fuori dalla sua propria chiave della Fede», e neppure veramente biblici
perché basati su una errata concezione della Sacra Scrittura come se fosse «un
Libro storico da trattare storicamente e nient'altro».
Il Vaticano II ha dunque consacrato il suo primo documento alla liturgia, e si è
poi concentrato su due idee essenziali: il mistero pasquale e la Chiesa. Il
mistero della Redenzione «è espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è
sempre il giorno della Risurrezione», qualche cosa che oggi stiamo completamente
perdendo, interpretando la domenica come l'ultimo giorno della settimana mentre
è invece il primo.
Quanto alla Chiesa, il Pontefice ha ricordato che il Concilio Vaticano I si era
interrotto a causa della guerra franco-tedesca e così aveva sottolineato solo la
dottrina sul primato del Papa e dell'infallibilità. Benedetto XVI non condivide
le critiche a questa dottrina, che è stata definita «grazie a Dio in quel
momento storico» e «per la Chiesa era molto necessaria per il tempo seguente».
Ma, se il Vaticano I non fosse stato interrotto, dopo il primato e
l'infallibilità si sarebbe passati a parlare del Corpo mistico di Cristo: già
allora «si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa
di strutturale, giuridico, istituzionale, anche questo, ma è un organismo, una
realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia
anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale».
In questo senso, il venerabile Pio XII scrisse poi l’enciclica «Mystici
Corporis», «come un passo verso un completamento della ecclesiologia del
Vaticano I». Ma successivamente, già negli anni 1950, «era già nata un po’ di
critica nel concetto di Corpo di Cristo: mistico - qualcuno diceva - sarebbe
troppo esclusivo», e dunque la nozione della Chiesa come Corpo mistico non
andava abbandonata, ma integrata con quella della Chiesa come popolo di Dio, un
concetto a sua volta non nuovo e che «nei Padri è considerato come espressione
della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Noi pagani, non siamo di per sé
il popolo di Dio, ma diventiamo adesso figli di Abramo e quindi popolo di Dio,
entrando in comunione con il Cristo che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in
comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi popolo di Dio», uniti
nella comunione eucaristica.
Applicando queste categorie nella pratica, il Concilio cercava di definire
meglio il ruolo dei vescovi. «E per fare questo - ha detto il Papa - è stata
trovata la parola "collegialità", molto discussa con discussioni accanite,
direi, un po’ esagerate anche».
Secondo Benedetto XVI era però tutto sommato la parola giusta «per esprimere che
i vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del corpo degli Apostoli»,
anche se solo il Papa è successore di Pietro. Pure sulla questione della
collegialità vi è stato un vivo dibattito al Concilio. Ma anche questo acceso
dibattito non è bene inteso da alcuni storici. «Appariva a molti come una lotta
per il potere, e forse qualcuno ha pensato al potere, ma sostanzialmente non si
trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza
del corpo della Chiesa con i vescovi, successori degli apostoli come elementi
portanti», mai però separati dal Papa.
Altri temi forti del Concilio furono quelli della libertà religiosa e del
dialogo con i non cristiani. Inizialmente al Concilio «i nostri amici ebrei
dicevano che, dopo gli avvenimenti tristi del nazismo, la Chiesa doveva dire una
parola sull'Antico Testamento e sul popolo ebraico, anche se era chiaro che la
Chiesa non era responsabile della Shoah». Ben presto, però, «sì capì anche che i
vescovi dei Paesi arabi non erano felici e temevano una glorificazione dello
Stato di Israele, che naturalmente non volevano. Dissero che andava bene una
indicazione teologica sul popolo ebraico, era necessaria, ma allora bisognava
parlare anche sull'islam». Altri rilevarono che, se si parlava dell'islam,
occorreva occuparsi anche del buddhismo e dell'induismo, «e così la
dichiarazione iniziale sul Popolo di Dio e l'Antico Testamento divenne una
dichiarazione sul dialogo interreligioso».
Sull'islam, come su altri temi, il Concilio non andò forse sufficientemente a
fondo: ma fu, secondo il Papa benemerito e preveggente, come lo fu in altri
documenti. Perché, allora, dopo il Concilio c'è stata una crisi nella Chiesa con
«miserie, seminari e conventi chiusi»? La colpa - ha affermato il Pontefice
criticando ricostruzioni storiografiche diverse, sia progressiste sia ultra-
conservatrici -, non solo non fu dei testi ma neppure dell'evento Concilio come
realmente si svolse nella storia. La crisi venne dall'evento parallelo creato
dai media, che in realtà non coincideva con quanto davvero era accaduto a Roma.
«Il mondo ha percepito il Concilio dei media - ha detto il Pontefice -, non
quello dei padri, quello della fede». «Il Concilio dei giornalisti ha
un'ermeneutica diversa, politica: il concilio era lotta di potere fra fazioni
della Chiesa. Fra chi cercava la decentralizzazione della chiesa, un ruolo per i
laici e la sovranità popolare e chi insisteva per culto e partecipazione. La
banalizzazione del Concilio è stata violenta, ha prevalso una visione nata fuori
della fede» che è stata una vera e propria «calamità».
Accanto al «Concilio reale», che lo Spirito Santo guidò - sì, anche attraverso
le controversie e gli incontri privati - a produrre documenti che sono ancora
oggi una bussola sicura per la Chiesa, emerse nei media un «Concilio virtuale»,
presentato come rottura con tutto quanto era avvenuto prima. Purtroppo nei
decenni successivi al Vaticano II «il Concilio virtuale è stato più forte del
Concilio reale»: ha scardinato tanti aspetti della vita della Chiesa,
determinando fraintendimenti gravissimi.
E tuttavia Benedetto XVI lascia un'eredità precisa, che non è pessimista.
Rifiutata da molti intellettuali progressisti e ultra-conservatori,
l'ermeneutica della riforma nella continuità si sta affermando tra tanti
sacerdoti e fedeli. Così, «50 anni dopo il Concilio vero appare nella sua
forza». «Il nostro compito nell'anno della Fede è che il vero Concilio Vaticano
II si realizzi». Un compito che Papa Ratzinger affida a tutta la Chiesa, ma che
sarà indirizzato e guidato dal suo successore. «Mi ritiro adesso in preghiera –
ha detto infatti ai parroci romani –, sono sempre vicino a voi e sono sicuro che
anche voi sarete vicino a me, anche se per il mondo rimango nascosto».
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